INAUGURAZIONE “TONINO & FRANCO: DUE STORIE, UNA LUCE”
Oggi 9 settembre alle ore 18:00 si è svolta la presentazione della mostra fotografica dedicata ai due maestri del cinema Franco e Tonino Delli Colli provenienti dall’archivio fotografico della famiglia. Presenti i figli Laura Delli Colli, presidente del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani e figlia di Franco, e Stefano Delli Colli, direttore di Quotidiano Energia, figlio di Tonino, scomparso nel 2005. Lunga la chiacchierata e moltissimi gli applausi. E tanti, ma davvero tanti, gli aneddoti di un mondo cinematografico di cui, come afferma Laura Delli Colli, “siamo testimoni e che non vogliamo perdere“. Ecco cosa ci hanno raccontato.


Laura: Siamo molto felici di essere qui e siamo particolarmente emozionati perché, dopo i numerosi riconoscimenti, Franco e Tonino hanno una un’occasione di visibilità del loro lavoro come questa. Noi siamo qui come testimoni della loro storia ma anche testimoni di un grande momento del cinema italiano e di un tempo che non vorremmo dimenticare.
Stefano: La mostra ci accompagna nella storia del cinema italiano di quasi sessant’anni, in un lungo cammino di artigianalità unita alla passione per il cinema vissuta con un’intensità e un amore davvero grande. E’ un lavoro nato nel ’43, durante la seconda guerra mondiale, in un periodo dove la pellicola si reperiva con un’enorme difficoltà, si trovava spesso solo al mercato nero. E’ una storia finita purtroppo prematuramente, entrambi per una malattia al cuore, cuore vissuto però sempre per il cinema.
Come siete cresciuti in questo ambiente cinematografico?
Laura: io mi sono formata in questo mestiere e poi ho a mia volta formato nuove generazioni a cui ho saputo trasmettere l’amore per il cinema che non sia solo guardare al divismo ma anche saper stare in silenzio sul set, perché fare il giornalista di cinema significa anche essere un po’ come loro, stare sul set rispettando il loro lavoro. Credo che quel tipo di lavoro è così affascinante che ha segnato la nostra vita. Io volevo fare cinema e mio padre mi diceva che sarei stata davvero adatta a fare l’aiuto regista, ma a quei tempi non si pensava che una ragazza facesse un lavoro che spettava a un uomo. E’ così che ho iniziato a occuparmi di giornalismo.

Stefano: Io sono sempre stato appassionato di cinema, ma è un mestiere complicato! Mi sono avvicinato alla sceneggiatura però appena laureato la vita mi ha portato ad avere altre occasioni di lavoro. Anche se sono diventato comunque un giornalista e ho continuato con la scrittura.. Attraverso i commenti mio padre ho rivisto la storia del cinema e le loro sperimentazioni continue che segnano l’identità di un periodo. Ricordo ad esempio Totò a colori, che era il primo film italiano per l’appunto a colori: era una pellicola che sfondava con i suoi verdi e rossi che identificavano tutta l’idea dell’immagine. Volevano provare nuove strade e usavano una luce accecante.. ricordo che la parrucca di Totò prese fuoco e lui quasi si bruciò.

Laura: A proposito del lavoro con la pellicola ricordo un aneddoto di Mamma Roma. Tonino ha firmato quasi tutte le pellicole di Pasolini e soprattutto i suoi lavori in bianco e nero. Per questo film Pasolini voleva un bianco e nero molto contrastato, quasi violento. Che però comportò un problema enorme! Anna Magnani ha un viso molto segnato e particolare e su di lei non funzionava. Sui panorami quel bianco e nero andava bene ma su di lei era un disastro. Lei vide i giornalieri e si infuriò..Aveva il carattere che sappiamo e al terzo giorno di lavorazione dovettero usare un tipo di pellicola particolare solo per i suoi primi piani. Era un lavoro pesantissimo per la troupe che doveva ricaricare ogni volta la pellicola solo per lei.
Stefano: Papà (Tonino) conosceva molto bene la Magnani e vedeva che per quanto tentassero di truccarla veniva sempre male, fu lui a proporre di lasciarla al naturale e veniva benissimo.
Rispetto alla scelta di lavorare con Pasolini bisogna pensare che all’epoca si facevano molti film commerciali e c’erano molte troupe americane che pagavano molto per farle. La scelta di mettersi a lavorare con Pasolini, con uno che non era nessuno, né un regista e nemmeno uno scrittore famoso all’epoca, e che non riusciva a trovare nemmeno finanziamenti era una follia. L’unico produttore che accettò, Alfredo Bini, pagò pochissimo ma lui accettò lo stesso. Pasolini non conosceva niente della tecnica cinematografica e si affidava a lui su tutto. Diceva quello che voleva e lui interpretava quello che lui diceva. Accattone è nato proprio così. Con i film successivi riusciva sempre di più ad interpretare ciò che lui viveva interiormente e a renderlo sullo schermo.

Poi cosa successe ai loro percorsi?
Laura: La grande importanza del loro lavoro era che avevano una sintonia estrema e particolare quindi è proprio per questo che è stato quasi naturale che quando si sono divisi abbiano scelto strade molto diverse. Lo hanno fatto anche per un desiderio di non sovrapporsi. A quell’epoca nacque il cinema di genere e mio padre (Franco) scelse di lavorarci e di lavorare anche per le opere prime dove c’era il vero cinema autoriale. Lavorò per esempio per Avati e Giordana. Per le loro opere prime serviva qualcuno che facesse effettivamente il film e solo un direttore della fotografia con la sua esperienza poteva dare questo tipo di sostegno. Lavorativamente non si sono più incontrati ma il loro rapporto umano rimase fortissimo. Credo che il momento specifico in cui si separarono fu quando mio padre fu chiamato a lavorare per il “Gattopardo” di Visconti. Ma trovo che questa separazione sia naturale in un percorso cinematografico.

Stefano: Tonino parlava sempre di Franco come un grande direttore della fotografia, è chiaro e normale che ad un certo punto avessero interessi diversi. Leone è stato il suo regista più importante senz’altro. Incontrò poi Fellini, e con lui ritrovò nuovamente un grande regista con cui lavorare. Anche qui ricordo i racconti a casa. Il modo di lavorare era: arrivare sul set senza sapere niente, senza un’organizzazione precisa, una sceneggiatura esatta, Fellini decideva sul momento e mio padre ci lavorò benissimo anche se era una persona molto precisa e razionale. Poi ci furono Malle, Annaud con “Il nome della rosa”… E dopo La vita è bella di Benigni decise di mollare. Anche questa fu una scelta coraggiosa, poteva continuare a lavorare ma ha deciso di lasciarci con un bel film. Per “La vita è bella” lavorò a due fotografie diverse: quella della parte iniziale e quella finale. La prima parte aveva una fotografia solare, da commedia, mentre l’altra, ambientata in un lager conteneva tutto il dramma. Alle volte era stato criticato per questo, ma non era stato capito nemmeno dalla parte produttiva prima ancora che dalla critica, perché era stata una scelta pensata e voluta.

Laura: Leone ha contato anche per mio padre. Ricordo che per Giù la testa lavoravano entrambi insieme, in due unità diverse. Famosa fu la scena del ponte che saltò al momento sbagliato! Era una scena fondamentale per la narrazione e si poteva girare solo una volta. Tutti erano pronti, ciascuno da una parte del ponte. Il segnale per l’esplosione doveva essere fatto da un uomo con un fazzoletto bianco..ma poi qualcuno ne tirò fuori uno per asciugare il sudore e..Quando a Leone chiesero: e mo’ che famo? Lui rispose: annamo a magnà!
Ricordo molto bene i set che a un certo punto iniziai a frequentare come giornalista, ricordo Pasolini, che ricoprì i pavimenti di Cinecittà di sabbia per Salò o le 120 giornate di Sodoma…I set più gioiosi e rilassati erano quelli con Fellini. Non solo perché mio padre aveva già molto mestiere e il loro lavoro era molto paritario ma era il lavoro di squadra la cosa più bella. C’era una squadra molto forte con Ferretti alla scenografia e la Pascucci ai costumi. Loro sono persone che non perdono mai la loro semplicità ed è questo che fa di loro dei veri artisti.